flavio arensi


Lo specchio di Paolo Bini

Le conferenze del 1917 di Rudolf Steiner dedicate all’arte sono racchiuse nella silloge dal titolo Storia dell’arte, specchio di impulsi spirituali. Lo specchio, che già nelle ricerche antecedenti di Sigmund Freud fungeva da connessione con il doppio e la parte più oscura dell’individuo, nell’esoterista austriaco detiene una valenza meno inconscia, inerente al concetto paolino di elemento mediano in cui - con appannamento - si ravvisa qualcosa di grandioso, destinato per sorte a rivelarsi nel faccia a faccia post mortem con Dio. Così l’arte si connota come riflesso spurio di una condizione ben maggiore e di servizio rispetto allo sviluppo spirituale. Steiner toglie all’arte la centralità della scena, chiamando sul podio l’uomo e - meglio ancora - il suo cammino intimo nella conoscenza. Resta però da comprendere cosa si allontani di più dal semplice riflesso di quegli impulsi, tolti già i principi iconografici che prestano servizio come le ombre della Caverna di Platone, a ciò che davvero esiste. Steiner ha trovato la risposta nel colore, quello però studiato non da Isac Newton ma da Johann Wolfgang Goethe, nelle sue accezioni più poetiche e certo naturalistiche, determinate da una volontà di superamento dei dati fisici per entrare in quelli metafisici. Derivata dalle osservazioni di Steiner, filtrate nel tempo attraverso il lavoro copiativo di Vasilij Kandinskij, oggi la psicologia dei colori di Max Lüsher rappresenta un nuovo proposito terapeutico, dove forse Freud e l’antroposofo rischiano di trovare un terreno comune. Secondo Lüsher, l’individuo è attratto o respinge determinate tonalità, identificandosi ovvero reagendo alla loro frequenza cromatica, così da fissare un preciso stato emotivo leggibile attraverso lo schema di relazioni standard che denotano lo stato di salute e malattia. Sta di fatto che, attraverso il colore, ci si esprima e non è un caso se in lingua inglese la tristezza si colleghi al blu (feeling blue significa essere triste malinconico) mentre il rosso coincida con una buona espansività, quasi aggressiva, perché stimola le ricezioni nervose, come succede al toro di fronte alla muleta cremisi del torero.

Nel Novecento non sono pochi i pittori che cercano attraverso il colore di intendere una dottrina, uno stato emotivo e come accade talvolta la relazione col sacro, tanto che il pittore milanese Valentino Vago ha fatto della ricerca sfumata e impalpabile il linguaggio del senso religioso con una serie d’interventi all’interno delle chiese. Negli espressionisti astratti americani segno e colore si fondono in una mescola sovrannaturale che pian piano riduce nel minimalismo di Frank Stella, Sol Lewitt fino a Daniel Buren, il quale sfrutta l’architettura geometrica come supporto espressivo di condivisione popolare. In verità è piuttosto imprescindibile distinguere la pratica pittorica dall’idea architettonica e anche quando le generazioni più giovani tentano di sperimentare il colore in condizione di forma, non possono che ragionare all’interno del concetto di spazio e tridimensionalità. Proprio Vago a Milano negli anni ottanta operava attraverso l’eliminazione delle pareti realizzando “Tre stanze in scala tonale”, perché l’ambiente sparisse e nel contempo si ri-generasse in maniera pittorica. Un intento che risale alla camera picta, pur cercando di astrarsi da qualsivoglia modello di decorazione naturalistica per aderire al solo progetto mentale. Paolo Bini si comporta nella stessa maniera, ossia usa a pretesto la forma per romperne i confini optando per una sorta di esplosione, o riduzione, cromatica. Togliere il limite come definizione di chiusura, renderlo secondario alla percezione, è per l’artista campano il risultato di un percorso che cerca nel rapporto spaziale un elemento distintivo. La recente mostra alla Reggia di Caserta mette in luce la maturazione di un linguaggio sempre meno argomentativo, in risposta alla maestosità dei locali, ai loro arredi e persino alla loro storia. È tuttavia nel dispiegare questa grammatica verso il recupero degli ambienti di grandi dimensioni, nel colloquiare con l’urbanistica, che la pittura di Bini diviene la rappresentazione più efficace del paesaggio interiore portato a orizzonte del mondo. Se Alfredo Chighine o Ennio Morlotti richiedono la materia, il grumo, lo scavo, per ritrarre il sistema terreno e Mark Rothko è ossessionato dalla velatura per afferrare quello ultraterreno o esistenziale, Bini arriva a sfruttare la linea secca come Giovanni Anselmo, ma ponendola in chiave di spettro amplificato della luce con tutti i suoi colori, uscendo cioè da un atteggiamento di severa rarefazione del pensiero, quasi ridotto lacanianamente a un nulla che nulla pur non è, per offrire tutte le possibilità. L’interesse per il dato naturale, il paesaggio, diviene persino nella forma geometrica una decisione di vita, se per vita si giudicano le molteplici occasioni del reale. Da questo punto di vista, Bini si stacca dalle generazioni precedenti degli italiani che dettagliano il mestiere pittorico nella ricerca esasperata della forma/luce, come Claudio Olivieri o Giorgio Griffa, fino a Ettore Spalletti, per decifrare quello che è possibile, più che quello che è praticabile. Questo suo invito a esplorare ritmicamente i piani, confondendo ciò che estroflette dall’inganno coloristico, rende stabile l’equilibrio delle emozioni come argomento esperienziale. Un’esperienza che è privata e dunque variabile, tuttavia presa come avventura condivisibile se non condivisa. A ciò si aggiunga la precisa scelta dei materiali: dalla fragilità della carta - il suo frastagliarsi sulla superficie come increspatura tagliente - al polistirolo, attaccabile eppure solido, quali risposte alle sollecitazioni quotidiane che ciascuno sopporta. Ancora una volta, è la frontiera fra ciò che potrebbe distruggersi e ciò che rimane a indicarci la direzione dell’opera di Bini, sospesa nell’alternanza di stati inquieti e calmi, pause incolori e sopraffazioni urgente di certi verdi acidi che scoppiano fra infinite nuance alternative. Quando ci si rende conto che il percorso dialettico di Bini parte da un costrutto ben piantato nella storia dell’arte, si comprende pure il suo evaderne i sistemi per ricercare una personalità precisa e irripetibile. Rimane comunque (e sempre) il rispetto per quello che è stato la sua migliore intenzione per accedere al futuro, nella consapevolezza di rivolgere all’osservatore quello specchio nebbioso in cui, a ben vedere, ci sono tutti i motivi della nostra esistenza emotiva.

© Flavio Arensi, 2017