luca beatrice (2)


Spazi immensi

“Che cos’è la pittura?” si chiede Julian Bell, saggista e a sua volta apprezzato pittore. Oggi, aggiungeremmo, perché negli ultimi decenni si è intensificato quel dibattito che aveva preso forma già con le avanguardie di inizio ‘900. Se un tempo al pittore poteva bastare la forza del proprio dipingere, ora egli risulta inserito (i resistenti direbbero trascinato a viva forza) nell’impianto teorico che è alla base di tutta l’arte contemporanea. La pittura non può e non deve chiamarsi fuori, pena l’autoesclusione.

Torniamo a Bell, e con lui proviamo a rispondere alla sua domanda, che nel frattempo si è complicata:

esiste qualcosa che unifica i differenti oggetti che chiamiamo pittura o dipinti?

Che cosa è accaduto all’idea di rappresentazione dell’arte moderna?

Quali sono stati i fattori che hanno determinato il mutamento della natura della pittura negli ultimi due secoli?

Che valore e significato ha nel mondo contemporaneo l’antica pratica del dipingere?

Nodo cruciale risulta il rapporto con la tradizione, essenziale nella cultura occidentale, perché la pittura è millenaria, altri linguaggi molto più recenti. Altro tema quello dell’estensione della pittura nello spazio, in quanto non è più pensabile identificare la pittura con il quadro, ovvero la superficie bidimensionale dipinta, quanto piuttosto relazionarla con tutte le altre arti. In ultimo, al pittore viene sempre più richiesto di pensare, avere consapevolezza di ciò che fa, immettendo dunque il proprio lavoro all’interno di un processo e conoscendone in anticipo, con un lieve margine di improvvisazione, i risultati.

Questo “cappello” teorico, a mio avviso, diventa indispensabile quando si voglia affrontare la pittura a quasi vent’anni dall’inizio del nuovo secolo, in un contesto culturale che pur non presentando una temperie avanguardista così vivace come fu quella del primo ‘900 ha letteralmente stravolto la carta geografica dell’arte, che oggi non è più soltanto Europa vs. America. La questione si fa poi urgente nel parlare di un “giovane pittore”, chiamato all’ardua impresa di “dire qualcosa di nuovo” (l’era del postmoderno, con i giochi a incastro tra citazioni e rimandi, forse è finito) senza perdere per strada ciò che alla pittura si continua a richiedere: che emozioni, che sia bella, profonda, viva.

Conosco e seguo da alcuni anni il lavoro di Paolo Bini, un ragazzo trentaquattrenne, ritenendolo tra i migliori in assoluto in Italia (e non solo della sua generazione), peraltro maturo per il confronto internazionale. Mi colpisce innanzitutto la sua piena aderenza al lavoro, con una concentrazione che potrei definire zen e una necessità esistenziale che gli evita inutili digressioni e perdite di tempo. Bini è animale istintivo e ricercatore, colorista e stratificatore, ti ammalia nel quadro e, appena ti sei abituato, rigetta la funzione domasguardi della pittura per portarti fuori, là dove aggredisce spazi. Spazi che diventano immensi perché la pittura li buca, li attraversa, li sovverte, mettendo in crisi la nostra consueta percezione, noi in piedi davanti l’opera a osservare.

Baciato da un talento raro, Paolo sa di possederlo e proprio per questo lo trattiene, segno di rara intelligenza, ti costringe a entrare nel suo progetto. E io, che non nego un certo richiamo verso la “tradizione”, non manco talvolta di prenderlo in giro quando mi sento sollecitato a discutere dettagli minimi, la posizione delle opere nello spazio, i rapporti dimensionali, l’equilibrio formale tra campi di colore e illusorie monocromie. Non sono particolari trascurabili, ha ragione lui, perché a nessun artista basta il saper fare (per questo ci sono artigiani bravissimi) e la confezione finale è la sola opera che conta, il tutto che mette in fila i singoli elementi per una visione complessiva. Precisissima, nel suo caso, senza perdere per strada un solo grammo di emozione.

In lui scorgo la gloriosa epoca/epica della pittura italiana, la pienezza della luce mediterranea, che nel frattempo è andata in giro per il mondo, ha imparato, assorbito al bisogno, rimanendo pienamente se stessa. Volendo schematizzare, a rischio banalità, Paolo Bini non lavora con le immagini. Se non astratto, almeno aniconico, cifra che in Europa ha significati diversi rispetto all’America e in Italia diversi ancora. Una poetica, la sua, che interviene nella struttura –lo studio delle forme significanti direbbe lo storico inglese Nigel Warburton, ma rispetto al passato non più sospese in una condizione di atemporalità perché il presente ha consumi più rapidi e, soprattutto, non aspetta. Operazione complessa, insomma, difficile ma non ostica, intellettuale e non intellettualistica, anche se da più parti (me compreso) la prima voce che si alza davanti a un lavoro di Paolo appartiene alla meraviglia. Senza contare la fisicità così evidente e palpabile: Bini è rugbista, sportivo nell’agone, e i risultati (nello sport come nell’arte) si ottengono solo mescolando la disciplina, l’allenamento, il colpo di genio, l’imprevedibilità.

In pochi anni Paolo Bini è cresciuto tantissimo. Nell’autunno 2016 vince il Premio Cairo, maggior riconoscimento italiano per l’arte under 40, con Luoghi del sé, magnetico dipinto sulle tonalità dell’arancio; poche settimane dopo entra in punta di piedi nelle sale della Reggia di Caserta e ne esce alla grande, ampliando necessariamente la pittura a installazione. Se poi lo spazio in questione ha natura aulica, ricco di segni e architetture, l’opera contemporanea non può non tenerne conto, lavorando in armonia oppure per contrasto, meglio se entrambi. Così è stato per il progetto Mediterraneo rosso e oro, alla Cappella dell’Incoronata, Palermo, nell’estate 2018.

Periodicamente Bini ha bisogno di spazi immensi. Parte va in Sudafrica, da dove mi manda messaggi e fotografie: un’altra luce, altre ampiezze, un confronto che fa bene perché azzera qualsiasi certezza. Per Milano gli ho detto semplicemente, “vai, Paolo, e spacca”. Intanto ha la valigia pronta per New York dove lo attende un’altra nuova esperienza, due mesi di residenza all’International Studio & Curatorial Program.

Vai Paolo, hai davanti spazi immensi.