massimo bignardi


Dal mare della memoria all’oceano delle passioni

Dirò, come sostiene Borges a proposito della poesia, che la pittura «non è meno misteriosa degli altri elementi dell’universo». Lo è particolarmente oggi, in un’era nella quale le immagini hanno preso il sopravvento sulla parola e sulla scrittura, anche se quelle testimoniate dalla pittura conservano, però, un’altra natura e conducono verso una narrazione diretta dell’Io. Ciò è grazie ad una pratica “narrativa” che predispone l’inesprimibile alla visione. Inesprimibile che non include unicamente i densi “grumi” nascosti nella psiche, le “deiezioni” dell’inconscio, i piccoli o grandi drammi dell’esistenza, le felicità e i desideri mai assopiti che, unitamente alla mitologia, alimentano la “profondità dell’anima” sia dell’artista, sia dello spettatore che sosta davanti all’opera, in intimo colloquio con essa. L’inesprimibile – lo ricordo a me stesso – è qualcosa che affiora quando l’anima, senza deroghe, ne percepisce la sua presenza.

La pittura, mi rivolgo ad essa perché il protagonista di queste pagine, Paolo Bini, è essenzialmente pittore, resta un linguaggio mai dismesso anche se, nell’accelerato sviluppo delle tecnologie del digitale, ha trovato e trova nuovi strumenti ed aggiornate pratiche creative.

Nel percorso formativo di Bini essa si iscrive essenzialmente nella tradizione propria del secondo Novecento, delle neoavanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta che rimeditano sul valore del segno, del suo rapporto con la superficie e con la materia. Nella formazione del dizionario immaginativo del giovane artista, la memoria di “luoghi affettivi” ha prevalso, definendo una relazione bidimensionale ancorata, quasi sempre, alla linea dell’orizzonte, metafora di quel paesaggio sul quale si apre la sua personale storia, vale a dire il tratto di mare, da punta Licosa a quella della Campanella che aveva scoperto da bambino dalla spiaggia di Paestum.

Il viaggio della sua pittura parte, dunque, da quel mare, così immenso e mitico nei ricordi dell’infanzia, ove le figure davano conto della realtà di cose, di oggetti, di materie per spingersi oggi nell’onda alta dell’oceano che, direbbe Baricco, è propria delle passioni.

Il passaggio, come già ho avuto modo di scrivere anni addietro, non è stato facile, anzi lento, a volte sofferto, per il timore che si stavano definitivamente slacciando i fili di un legame con il valore della raffigurazione. Paolo Bini dai primi anni del Duemila ha lavorato ininterrottamente spingendo, dal 2005, la sua pittura a staccarsi da composizioni che trattenevano frammenti di immagini e di oggetti articolati in spazi a mo’ di scatole sceniche, per rivolgersi ad un dettato nel quale, se pur con brevi inflessioni di matrice gestuale, predomina l’emotiva essenzialità del colore. Va precisato che le prime, realizzate intorno appunto al 2005 ed ancora sottoposte al ‘vincolo’ della figura, anche se avanzata quale impronta della sagoma o, se si vuole, dell’oggetto racchiuso nel suo contorno di forma, segnalavano una struttura lineare che impaginava, in brani sostanzialmente astratti, una sorta di diario intimo. Era, in fondo, un registro cifrato da un amorfo espressionismo che, solo per la traduzione mentale, ricordava la pittura intellettuale di Robert Motherwell, certamente non letto direttamente ma traslato dai cataloghi o da alcune tardive declinazioni vive nella pittura italiana degli anni Novanta. Anche la scelta quasi monocroma del segno nero, che per un periodo ha connotato le esperienze formative del giovanissimo artista salernitano, riporta alle vigorose elegie in bianco e nero che caratterizzarono una significativa pagina del pittore statunitense sul finire degli anni Quaranta. Insomma Bini tentava, a metà del decennio, di dare un senso alla visione della realtà attraverso la memoria, impaginando i suoi segni-sagome in quelle ‘stanze’ che lui ama definire ‘memoria esterna’. In fondo, il suo interesse era rivolto alla resa di oggetti svuotati del ‘corpo’ – come scrivevo presentando il suo lavoro al Premio Camposauro, del 2005 – posizionati «nello spazio della memoria con lo stesso ordine, lo stesso mistero delle bottiglie morandiane». V’era, però, un margine di indecisione rispetto al colore: non era tanto la reticenza al suo darsi quale dato connotativo, quanto una sofferta necessità di volerlo sentire come dettato di un’emozione profonda, di quella gioia che si legge chiara quando l’artista si lascia andare nei flussi della pittura (lo registriamo in Luogo 30, in Altra risonanza, piccole tele del 2008), nella costante tensione che lo accende ogni qualvolta si prospetta un’avventura sulla superficie della tela. Come un naufrago che non cerca salvezza, Bini affidava al colore i segnali della sua necessità di sentire l’esperienza creativa come identità esistenziale, senza, però, rinunziare al legame con la viva tradizione della pittura italiana, in particolare con l’area di quell’astrazione lirica che si incunea nelle vicende artistiche del secondo dopoguerra. Guardava a Licini, cercando riparo per le sue forme, oramai solo tracce; poi all’esplosione timbrica del colore luminoso di Afro; infine rileggeva l’unità compositiva che viene dagli esiti della Nuova Scuola Romana del decennio Ottanta, soprattutto da Giuseppe Gallo per quanto riguarda le larghe campiture di colore. Nella fitta corrispondenza per e-mail, avviata intorno al 2008, a proposito del colore Bini mi scriveva: «Il verde negli ultimi tempi è frequente. È presente soprattutto nella seconda fase di stratificazione della materia, quello tra la matita (che copre il bianco del cartone) e il bianco di zinco che smalta la superficie, quasi a formare uno schermo […] schermo che resta ancora della memoria […]».

Bini intuisce che lo spazio che si frapponeva tra le forme e le sagome di oggetti, non era la risultante di una geometria, quanto dettato di uno stato emotivo: la luce che si insinuava tra i segni, a volte slabbrati, del colore dato con il pennello secco oppure con il pastello era cifrata da un senso di novità, di scoperta improvvisa ed istantanea, senza nascondere i tremori dell’incertezza, il panico che l’aveva accompagnato nel distacco dalla figura. La luminosità del bianco lascia il posto ad un nero altrettanto luminoso con il quale l’artista prolunga l’attesa della notte, vale a dire l’attimo nel quale, di fronte alla tela bianca, il suo occhio interiore non vede. In una ulteriore lettera inviatami lo scorso autunno, affidata ancora alle strade dell’etere, Paolo, a proposito dei momenti che precedono l’aurora dell’immaginario nel suo ‘farsi’ dentro la superficie della pittura, precisava: «Questo nero è lo spazio in cui trovo consiglio, è quel momento della ‘notte’ (sai cosa intendo) in cui la formulazione del dipinto prende piede in un ritmo incalzante». Il riferimento è a Luoghi di pensiero, uno dei due grandi dipinti esposti nella personale tenutasi a Siena nel 2008, allestita al Palazzo di San Galgano sede della Facoltà di Lettere e Filosofia, ove l’attenzione dell’artista si concentra sull’intensità di stati emotivi, dettati da salti tra tinte acide, il verde ad esempio e le calde e lievi sfumature di una intima luce aurorale: una luce che filtra dal fondo, rivelando l’inatteso, ossia il luogo di una nuova esperienza, la pittura.

Il coraggio di affermare il ‘ruolo’ dell’emozione era per Robert Motherwell – la citazione mi sembra più che mai appropriata – il principale apporto che l’astrattismo ha dato ai linguaggi dell’arte del nuovo secolo, e parlo ovviamente del Ventesimo. Certamente va tenuto conto del contesto nel quale questa osservazione trova la sua ragione, vale a dire la pittura della fine degli anni Quaranta e dei primi Cinquanta (il testo è del 1951) quando si connota l’onda matura dell’espressionismo astratto, includendo nella sua ampiezza le esperienze che segneranno profondamente gli scenari delle due grandi capitali dell’arte contemporanea, New York e Parigi. Nell’idea di «affermare il ruolo dell’emozione» Motherwell traduceva sia la necessità di rispettare, da parte di alcuni artisti, le «loro emozioni più intime», sia quella di porsi al di là di qualsiasi dettato formale, di configurazione del segno e del colore a dati oggettivi, insomma accettarle al loro «apparire, ad un primo sguardo, assurde e irrazionali». L’emozione non ha un perimetro, non è un ‘luogo’ della mente, né paventa un ‘corpo’, tanto meno è modellabile, cioè si presta, come la percezione – nel suo lato strettamente fisiologico –, ad una elaborazione del pensiero: è una soglia precaria e provvisoria («è preferibile – dice Bini – che l’attesa conservi ben poco del passato»), dunque non un limite che segna dei tempi, bensì tempo dichiarato della transitorietà dell’esistenza. Dall’altra parte le tensioni che alimentavano le esperienze dell’espressionismo astratto alla fine del decennio Quaranta conservavano ancora l’impronta dell’ Urschrei, l’urlo primordialedella Brücke, anche se stemperato del respiro di un disagio esistenziale. Se pur declinavano la vitalità di urgenza immediata, urlata e aurorale del colore, dato con gesti larghi capaci di architettare lo spazio, fino a farlo luminosamente avvolgente, esse costruivano un orizzonte (punto anch’esso provvisorio) ove è possibile che «l’angoscia – parole di Motherwell – s’incontra e si fonde con il comico» o, meglio, che l’urlo primordiale si faccia testimonianza di un’identità esistenziale, che è anche profonda felicità interiore, presupposto sul quale insiste con convinzione (e non in ritardo) il nostro giovane artista.

Un’inquietudine, propria di uno stato “aurorale”, impronta la pittura di Paolo Bini sul finire del decennio ed è, a mio avviso, ben evidente diverse opere raccolte nel catalogo che accompagnava le mostre realizzate tra il 2009 e il 2010 al Centro Luigi Di Sarro di Roma, alla Galleria Il Catalogo di Salerno ed alla CerrutiArte di Genova. È una pittura che non propone immagini di uno stato d’animo nel quale l’artista riversa gli umori esistenziali, tanto meno metafora di una luce data dalla percezione ottica. È un’emozione incuneata tra la notte e il giorno, in pratica tra luci di realtà fra loro diverse implicando, quasi sempre, la memoria e la visione.

Fra i temi ricorrenti nelle lunghe chiacchierate avute con Paolo nei primi anni della nostra amicizia, v’era il valore da dare all’attimo aurorale dell’esperienza creativa. Se da un lato lo sollecitavo a non cedere al sentimento del ricordo, al tempo stesso cercavo di offrire alla discussione chiarimenti sui concetti di persistenza e di durata – nell’accezione bergsoniana – coesi alla memoria.

La pittura passa dall’idea di superficie che essa evoca a tangibile affermazione della materia pronta a rinnovare la gamma dei valori plastici. È questa una scelta importante per Paolo Bini, come evidenziano le “carte abrasive” che il giovane artista ha realizzato nel suo soggiorno a Belgrado. Uno scatto in avanti per andare oltre l’effetto tattile della pittura che, fino a qualche tempo fa, aveva esibito negli spessori concessi da carte, da grumi di colore, da materie incastrate nei piani di colore. Il tentativo non è dare spessore materico all’immagine, quanto di tessere una relazione tra lo spazio e la percezione fisica che si ha di esso, così come si evince dal ciclo di opere realizzato per la mostra allestita nel cortile di Palazzo Bianco a Genova nel 2010.

La sua è una scelta che lo porta a staccarsi dal cosmo d’immagini nel quale vive l’uomo contemporaneo, fatto essenzialmente di figure che appaiono e scivolano sui monitor, sui piccoli schermi domestici, rettangoli pronti a celebrare un tempo infinitesimo che muore davanti ai nostri occhi.

l richiamo a preesistenze del suo dettato pittorico, ad una gestualità che sostiene larghi segni sospesi in superficie, è da leggersi quale necessità di non sottostare alla sua seduzione. Fraziona la sua uniformità strutturale, senza servirsi della craquellure o altre memorie dell’Informale italiano. Lo fa forzando i gradienti della luminosità che accentuano la trasparenza, mettendo in gioco il valore della luce, la sua funzione di medium che svela la materia,. La rende trasparente, facendola filtrare dall’opacità della realtà per trasformarla in immagine. Bini lavora, dunque, sul binomio luce-superficie servendosi di una strategia per fissare – avrebbe detto Brodskij a proposito della pratica usata dai poeti – il suo stato d’animo «in un determinato momento». I segni circolari di un infinito cosmo, impenetrabile e luminoso, gli suggeriscono una rinnovata visione della realtà e al tempo stesso gli ricordano la sua stessa presenza nel mondo, misurando «il rapporto – così conclude Brodskij – tra il suo corpo e lo spazio». Rapporto che implica un tempo che per l’artista resta ancora l’intervallo lungo tra la notte e la luce allo zenit, tradotto ora nel passaggio astrale tra due tempi della luminosità celeste.

Night light, è la fascia di opere dedicate alla notte, al tempo lungo dell’attesa che l’artista ha misurato dall’equinozio di primavera (qualche giorno prima del 21 di marzo, in base alle precessioni degli equinozi). Nero luminoso, non scheggiato dalle stelle, tanto meno dai riflessi della pittura; nero del silenzio e dell’attesa.

Land light/Green light. La parte mediana dell’installazione pittorica; terra e luce che richiama la natura, il sentimento della rigenerazione, della fresca atmosfera che alita sulla nostra coscienza. Ma anche terre di ruggine, di ferro, di una forza ancestrale e primigenia.

White light, è la percezione più estrema, posta lontano dalla soglia di realtà dalla quale il nostro sguardo muove. Luce intensa, bianca e prolungata, propria del solstizio d’estate (21 giugno), quando nell’emisfero Nord la durata del giorno è massima.

Paolo fa della pittura un “luogo” dell’incontro tra la notte e il giorno per collocare un corpo del simbolico, a metà di quel tempo che va dall’equinozio di primavera al solstizio d’estate,.

 

Sarà ancora la luce a guidare il suo interesse per un ulteriore nuovo attraversamento del paesaggio. Inizialmente è la luce atmosferica, densa di memorie che Paolo trae da suggestioni impressioniste ma anche dalla rilettura dei “paesaggi” che Turner fa affiorare da macchie dell’acquerello o dalla densità di un colore quasi informale. In occasione della mostra regionale del Padiglione italiano della 54a Biennale di Venezia (2011), che proponeva una parte della scena artistica della regione Campania, Bini espone Lefkada una tela di grandi dimensioni. Essa registra, nei confronti della superficie, una decisa inversione di marcia. Il colore perde ogni spessore ed è ricondotto ad una raffinata stesura di velature che misurano piccoli spostamenti di luminosità. Lo sguardo si perde in un infinito impercettibile, lontano nella nostra mente come la sperduta vastità dell’Universo.

L’idea di staccarsi dai luoghi della sua memoria avvertiti come limiti che non consentono, direbbe Jung a proposito della relazione tra inconscio personale ed inconscio collettivo, di aggiungere “materiale” alla coscienza, trova la sua piena affermazione nei dipinti che l’artista ha realizzato di recente (nell’ottobre del 2013). Si tratta di opere realizzate nel corso della “residenza d’artista” in Sud Africa promossa ed organizzata dalla SMAC gallery di Cape Town e dal Centro Luigi Di Sarro di Roma. È un ciclo di opere al quale Paolo ha dato il titolo Brink of the Ocean: essi testimoniano della sua necessità di andare oltre i ricordi del mare che bagna Paestum ma anche la scogliera di Lichnos, piccolo paese dell’arcipelago greco ove spesso l’artista ha trovato rifugio.

Oggi la sua pittura registra un nuovo passaggio, dalla percezione fisica dello spazio quindi tridimensionale delle prime opere a quella emotiva, desunta da un particolare stato d’animo che consegue allo svelarsi di una natura ravvivata da una luminosità “esistenziale”. È una luminosità che si accorda con l’esperienza del viaggio, dunque, della scoperta, dell’andare verso il mistero dell’incontro, aggiungendo altro “materiale”, al fine di alimentare «un notevole ampliamento dell’orizzonte – aggiunge Jung – , una più profonda conoscenza di sé […]» .

Un primo nucleo di queste opere Bini lo ha esposto nella personale allestita in ottobre alla Provenance Auction House, Art De Sade Gallery, di Cape Town. Nello spazio di Vrede Street Gardens campeggiavano sulle pareti rettangoli zebrati da strisce di colore, oppure grandi tondi nei quali l’artista ha tradotto un rinnovato dialogo con il paesaggio, trasportando il senso di infinito che la dimensione della moderna metropoli sudafricana ha impresso alla sua pittura. Dimensione di infinito che Paolo accentua anche nella scelta dei formati: il ricorso al tondo, all’ovale insomma la rinuncia al rettangolo pittorico è indice della necessità che, sul piano formale, si traduce nella perdita di quell’immaginario piano sul quale visivamente si appoggia il nostro sguardo. Un piano che, se posto in rapporto alle diagonali del rettangolo o del quadrato, si fa immediato ed inconscio “appiglio” prospettico.

Ciò significa la definitiva rinuncia al presupposto di una visione naturalistica del paesaggio, gettando ponti verso liminari territori dello spirituale. Di conseguenza agisce sul colore, sulla sua dimensione pittorica cercando in essa una condizione di “stati d’animo”. Un colore totalmente nuovo desunto da una sperimentazione tecnica che gli consente di non cedere ad una predefinita composizione: anzi prova ad organizzare la superficie pittorica servendosi di moduli orizzontali, di vere e proprie fasce che non soggiacciono all’ordine narrativo di uno sguardo che percepisce e trascrive. Sono strisce orizzontali che scandiscono il ritmo incessante vissuto dalla realtà sudafricana; al tempo stesso la dimensione naturalistica trova una sua rinnovata gamma di contrasti dettati ora da luminose fasce verdi, interrotte dal magenta, dal vermiglione che spargono una luce irreale – come in Nuvole di Stellenbosch –, ora isolando partiture chiare fino a sfiorare il bianco, che diventa la schiuma dell’oceano che vaporizza, come si osserva in due piccoli tondi. In essi l’artista traduce la sensazione di una forza interiore che spinge oltre la soglia rappresentata, rinunciando alla forma del “paesaggio”: sceglie di esso le energie di percorsi interiori, di tracce dell’ “essere”. Sceglie, innanzi tutto, una narrazione in cui tutto deve ancora accadere, perché la vita, parafrasando quanto afferma Lawrence, è una «lunga e animata conversazione.»